IL LATO ETICO DELLA MODA

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Grazie a Mavi Taten per la foto

Oggi vi parlo del lato etico della moda e di come essa appartenga ad un ambito vasto e dinamico, capace di interagire e di avere ripercussioni concrete su altri ambiti: culturali, sociali economici e ambientali.

Pensare di poter relegare la moda al solo interesse per gli abiti, lo shopping e il cambio di stagione vuol dire avere un visione statica e mancare di cogliere la sua vera essenza, ossia la sua capacità di evolvere e di partecipare attivamente a tutti gli aspetti della nostra esistenza sempre più frenetica.

La moda non è soltanto un sistema sincronico che cambia tutt’intero ogni anno, come sosteneva Roland Barthes, ma  è soggetto a trasformazioni progressive nel tempo e nello spazio: non tanto sulla base di decisioni arbitrarie del sistema moda ma sopratutto e in relazioni a delle istanze dei suoi consumatori, dei gusti degli individui e dei piccoli gruppi, delle esigenze identitarie delle tribu’ e delle subculture giovanili, delle usanze di strada, degli apporti più o meno esotizzanti delle culture e delle etnie non occidentali ( Il senso della moda, Roland Barthes ).

Ciò dovrebbe farci comprendere che nella pratica delle cose è il consumatore, attraverso le sue scelte di acquisto, ad incidere attivamente sulle dinamiche del sistema moda e sui processi di produzione e di distribuzione, e non l’idea di un’unicità e di un’autoritarietà della moda, continuando ancora a citare Barthes.

La moda sta attraversando un momento difficile e i cambiamenti in atto, a cui sono interessata come consumatrice e come professionista del settore, stanno modificando profondamente le regole sociali.

Il focus principale di questo cambiamento ruota proprio intorno alla figura del consumatore, autore attivo che quando fa shopping effettua delle scelte responsabili e critiche.

Un esempio concreto sono i Millennians, giovani adulti post-capitalisti entrati ormai a far parte della forza lavoro, della quale nel 2020 arriveranno a rappresentare un terzo a livello globale e che oggi in Italia sono circa 11 milioni.

Essi rappresentano una figura evoluta di consumatore interessato ad un modello economico e di consumo responsabile, che pone l’accento sulle questioni etiche e, riguardo la moda, più che all’ostentazione del marchio sono interessati alla moda etica.

Che cos’è  la moda etica?

Si tratta di quei capi d’abbigliamento che vengono prodotti prestando particolare attenzione all’intera filiera produttiva, che non inquini l’ambiente e non ricada drammaticamente sulle condizioni di vita delle persone impiegate nel processo produttivo.

Non so voi ma io tengo molto a sapere se gli abiti che indosso sono stati cuciti da operaie che lavorano 10 ore al giorno percependo uno stipendio mensile di circa 60 euro; oppure se per trattare il cotone della mia t-shirt siano state impiegate sostanze tossiche dannose per l’ambiente e per le persone.

Saperlo per me fa la differenza perché mi mette nella condizione di scegliere di non acquistare dai marchi di abbigliamento che si avvalgono di una filiera produttiva così dannosa e cercare delle alternative.

Applico gli stessi principi anche nel mio lavoro facendo molta attenzione nel ricercare un buon equilibrio tra le esigenze della mia cliente e i marchi e le collezioni che decido di coinvolgere nel suo restyling, ma non sempre è facile.

Cosa si può fare concretamente?

La conoscenza fa la differenza perciò:

informatevi, leggete articoli, riviste autorevoli e libri in grado di raccontarvi la verità sul sistema di produzione di cui si avvalgono molti importanti marchi di abbigliamento;

leggete le etichette dei capi che desiderate acquistare sapendo che le condizioni di lavoro nei paesi ad esempio come l’India, la Cina, il Bangladesh, il Malawi sono ancora piuttosto critiche per i lavoratori impiegati nella produzione;

sostenete il movimento Fashion Revolution nato dopo il disastro del Rana Plaza in Bangladesh, impegnato a livello internazionale sia sul fronte della sensibilizzazione dei consumatori in merito all’etica della moda, sia sulle pressioni esercitate sui grandi marchi dell’abbigliamento affinché svelino ai consumatori “chi ha fatto i nostri vestiti”;

leggete i rapporti annuali pubblicati da Greenpeace relativi al programma Detox Commitment, che vi svela i nomi delle aziende che stanno adottando misure concrete per risolvere il problema dell’inquinamento derivante dalla produzione dei lori capi d’abbigliamento. Qui trovate un’interessante articolo sul nuovo rapporto annuale;

comprate meno roba e cercate la qualità, chiedetevi perché un abito ha un prezzo basso e ragionate sempre in termini di rapporto qualità prezzo; posso affermare per esperienza che i prezzi ormai non sono quasi più allineati alla qualità del capo;

sfruttate al massimo le risorse di cui già disponete nel vostro guardaroba, imparate ad essere creative e a reinterpretare i capi in modo insolito e nuovo;

fate ricerca e scovate nuovi marchi e giovani designer capaci di produrre piccole collezioni e di avvalersi di una filiera sostenibile;

setacciate i mercati dell’usato e quelli che offrono moda vintage, si tratta per lo più di capi di abbigliamento prodotti in un periodo in cui la qualità era la regola.

Fate scelte ragionevoli e non restate indifferenti perché la questione riguarda tutti.

Noi consumatori e addetti ai lavori, mi riferisco a coloro che come me lavorano nell’ambito della moda, possiamo chiedere alle aziende di essere più trasparenti, di assumersi delle responsabilità e di impegnarsi concretamente per modificare in meglio la filiera produttiva.

Tutti possiamo beneficiare di questi cambiamenti, il nostro pianeta, la qualità della nostra vita in rapporto con la qualità di ciò che acquistiamo e la dignità umana e professionale..

Pensateci la prossima volta che mettete piede in un negozio.